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martedì 3 marzo 2015

Fish live @Planet – Roma 11/02/2015


Fish live @Planet – Roma 11/02/2015
Report e foto a cura di Maria Grazia Umbro

Articolo già apparso sul portale Rome by Wild:

Non so voi, ma quando arriva il periodo di San Remo a me scatta un po’ di nostalgia per il passato. E’ un senso di nostalgia per quegli anni in cui davvero la musica era al centro dell’attenzione. Nostalgia per quello che il passato ci ha offerto e che, ahimè, non sempre torna. Nostalgia per i trent’anni trascorsi da quando ospiti come Queen, Bon Jovi, Peter GabrielSpandau Ballet, Duran Duran, David Bowie, Depeche Mode, The Smiths,  facevano infiammare il pubblico della kermesse più seguita in TV. Ebbene si, trent’anni. Cioè gli anni ’80. Così bistrattati da tutti perché (dicono) non avrebbero apportato alcuna novità epocale al panorama musicale: dopo i miti secolari degli anni ’60 e ’70 che avevano lasciato un segno (ormai) indelebile, agli anni ’80 è sempre stato affibbiato lo stereotipo di non avere prodotto grandi cose, se non la nascita di un’era dove l’estetica aveva più importanza della sostanza. Ecco, non è poi così vero che gli anni ’80 non hanno prodotto nulla di meritevole. Figli di rock’n’roll e psichedelia che li aveva preceduti, arrivano il progressive, il punk e la new wave. In questo contesto così articolato, come in una specie di terreno fertile dove negli anni si sono messe a dimora buone sementi, nascono (fra gli altri) i Marillion che, ispirati dal sound di Genesis, Yes e King Crimson, per citarne alcuni, hanno riportato in auge il new prog.
Una premessa, per quanto noiosa, era d’obbligo. Perchè in effetti sono passati trent’anni dal periodo in cui Fish (Dereck William Dick) era il frontman nonché fondatore dei Marillion, dal 1981 al 1988, ed ha contribuito con la sua voce al successo di questa band. In particolare, “Misplaced Childhood” concept album del 1985, da tutti ritenuto il miglior lavoro e il maggior successo commerciale, è quello che ha portato il singolo “Kayleigh” in cima alle classifiche inglesi e li ha consacrati anche a livello internazionale. Ed è proprio lui che a distanza di 7 anni dall’ultima volta, torna in Italia, a Roma, e ad accoglierlo c’è un Planet stracolmo di fan per niente ossidati, proprio come il nostro gigante buono, che nonostante i suoi 57 anni e qualche acciacco di salute, ci ha regalato due ore intense di musica introspettiva ed esaltante allo stesso tempo.
La sua scaletta comprende prevalentemente brani del suo repertorio solista, iniziato nel 1990, con particolare attenzione all’ultimo disco “A feast of consequences” (2013), “13th Star” (2007) e “Vigil in a Wilderness of Mirrors” (1999). Non mancano però richiami al repertorio dei Marillion, anche se alcune fra le più famose (appunto la hit single “Kayleigh”, o “Lavender”,  o anche “Incommunicado”) non sono state contemplate. Quando le luci si accendono sul palco per accogliere la band, la prima cosa che si nota è l’asta del microfono che è straordinariamente alta, e lui vi si avvicina calmo e sorridente, con una kefia marroncina attorno al collo, occhiali, camicia e scarpe sportive, pronto ad iniziare. Bellissima la intro del primo brano con il suono lontano delle cornamuse. Lo sguardo passa in rassegna la platea, gli occhi chiari sembrano guardare ad uno ad uno le persone che sono raccolte sotto il palco. Questo si ripeterà molto frequentemente per tutta la durata del concerto. Col senno di poi, data la forte predisposizione ad interpretare le canzoni quasi come in un recital, il fatto di guardare bene e a lungo negli occhi del pubblico sarà un modo per avvicinarsi ancora di più con le parole. Ma il nostro gigante buono è stato anche molto disponibile verso il pubblico, inserendo qua e là qualche racconto. Subito dopo le prime canzoni, ha rotto il ghiaccio salutando (“ciao Roma, come sta?”). Si è scusato per essere un fottuto scozzese che non parla italiano. Poi ha voluto esprimere una certa “solidarietà” fra italiani e scozzesi, dicendo che non si sarebbe parlato di rugby dato che “voi siete stati battuti sabato, e anche noi siamo stati battuti sabato”  (riferendosi al torneo Sei Nazioni). In compenso ha detto di essere un ottimo conoscitore (o consumatore??) di vino, limoncello e grappa italiani… A quel punto, riprendendo un po’ le redini della serata, ha presentato il brano “Manchmal”, subito dopo un’altra pausa “sociale” col pubblico. Il locale si è riscaldato e lui toglie la kefia dal collo, poi dalla tasca posteriore prende un fazzoletto e ci si asciuga la testa (non ha più la folta capigliatura di un tempo…). Mostra a tutti che ripone quel fazzoletto sempre nella tasca posteriore, poi dalla tasca anteriore tira fuori un altro fazzoletto e ci si pulisce gli occhiali. Poi dice di far attenzione a non mischiare mai le due cose. Il momento di ilarità è servito e lui, si vede che è molto rilassato e contento di essere sul palco, riprende con tono ironico a raccontare qualcosa per presentare la canzone successiva (“This is a Lovesong”). L’aneddoto parla di una sua ex fidanzata che lasciandolo lo ha reso molto triste, e sua figlia, vedendolo molto depresso per questa cosa, gli chiede se può telefonarle per parlarci. Lui, pensando che lei volesse tentare di farli riconciliare, la lascia fare. Assiste alla telefonata mentre la figlia dice alla ex: sappi che sei la peggior fidanzata che mio padre abbia mai avuto!” . In effetti la canzone in questione “Arc of the Curve” parla di quelle bellissime storie d’amore che poi finiscono. A questo punto le chiacchiere si esauriscono con la presentazione dei successivi cinque brani tratti tutti da “A Feast of Consequences”: si tratta di una suite che sotto il titolo “High Wood” raccoglie cinque parti (“High Wood”, “Crucifix Corner”, “The Gathering”, “Thistle Alley”, “The Leaving”). Il disco, e la suite in particolare, è quasi interamente ispirato a dei ricordi legati alla prima guerra mondiale, e ad una serie di coincidenze della vita (il nonno che viene ferito in un posto della Francia vicino ad un hotel dove lui si trova a dormire la notte del suo compleanno nel 2011, la sua fidanzata che è originaria di un paesino della Germania dove suo nonno ha combattuto…). In questa parte del live l’atmosfera si fa molto più rarefatta, in certi istanti, complice il fumo artificiale sul palco, si può quasi immaginare di essere in mezzo alla nebbia su un campo di battaglia, o anche sulle Highlands scozzesi. E l’enfasi di Fish nell’interpretazione si fa più sfrontata, inizia anche a giocherellare con la lunga asta del microfono, brandendola come una spada o una lancia (soprattutto verso le prime file, come a voler puntare uno per uno i suoi nemici). Siamo già oltre metà dello show e con alcuni pezzi più vecchi che seguono, in particolare quelli dei Marillion, il pubblico può finalmente dare sfogo all’entusiasmo che finora era stato si forte, ma ancora composto. A questo punto tutti sono a braccia alzate anche perché Fish esorta il pubblico a farlo (“Roma, hands up!”), e l’apoteosi, se così si può dire, arriva con “Heart of Lothian” tratto da “Misplaced Childhood” (1985). Arriva il momento di presentare la band eccezionale che lo accompagna: Robin Boult alle chitarre, Steve Vantsis al basso, John Beck alle tastiere, e Gavin Griffiths alla batteria. Lui invece è Fish (“They call me the Fish”).  Il concerto sarebbe finito così ma un bis è previsto (“Incubus”, tratto da “Fugazi” del 1984) ed un secondo viene chiesto a gran voce (“The Company”, tratto da “Vigil in a Wilderness of Mirrors” del 1999). Lui coglie l’occasione per dire che gli dispiace di essere venuti in Italia in ritardo (il tour doveva passare a novembre, ma fu rimandato per motivi di salute di un componente della band) e quindi voleva approfittare per dire due cose che avrebbe dovuto dire all’epoca: 1) buon Natale e 2) buon anno nuovo! E con questa battuta si arriva al momento dei ringraziamenti e dei saluti finali. “My name is Dereck, I am the Fish”.
Entusiasmo alle stelle. Il pubblico, diversamente dal solito, ci mette un po’ a lasciare la platea del Planet, c’è un fornitissimo banco del merchandising ufficiale che viene preso d’assalto, e in molti scattano foto con le magliette appena prese. Tutti restano più o meno nei pressi del palco perché sperano che Fish si affacci per firmare autografi. In questo piccolo assembramento sento i commenti a caldo dei fan che sono tutti molto contenti, soddisfatti e consapevoli di aver assistito ad uno spettacolo bellissimo, con musiche egregiamente arrangiate ed eseguite. Sento anche qualcuno che dice “peccato per la voce”, che forse non è quella di una volta, ma a mio avviso non ha nulla da invidiare per uno che nel 2008 si era ritirato dalle scene per un problema di salute proprio alla gola, che lo ha tenuto lontano per un po’ dalla vita sregolata della rockstar.
E’ da sottolineare l’attenzione che il Planet mette nella sua programmazione, prevalentemente dedicata alla musica progressive italiana e straniera, rendendolo una specie di “tempio” dove poter apprezzare un certo tipo di musica. Come avuto modo di dire, c’è una generazione di artisti (quella passata, evidentemente) che riesce ancora a trasmettere forti emozioni quando sale sul palco e riporta alla luce i successi che hanno accompagnato la giovinezza di molte persone. Anche Fish, con il suo carisma, questa sera ci ha dato un’opportunità imperdibile di assistere ad un concerto grandioso e coinvolgente.

SETLIST:

PERFUME RIVER       (2013)
FEAST OF CONSEQUENCES  (2013)
MANCHMAL  (2007, 13th Star)
ARC OF THE CURVE  (2007, 13th Star)
HIGH WOOD  (2013)
CRUCIFIX CORNER (2013)
THE GATHERING (2013)
THISTLE ALLEY (2013)
THE LEAVING (2013)
SLAINTH MHATH (Marillion, 1987 Clutching at straws)
VIGIL   (1999, Vigil in a wilderness of mirrors)
BIG WEDGE    (1999, Vigil in a wilderness of mirrors)
HEART OF LOTHIAN (Marillion, 1985 Misplaced Childhood)
INCUBUS (Marillion, 1984 Fugazi)

THE COMPANY (1999, Vigil in a wilderness of mirrors)


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